05 Mar

Progettare una scuola, un dialogo tra didattica e architettura

 

Cosa significa oggi progettare una scuola a misura di ambiente e di studente? Lo abbiamo chiesto all’arch. Stefano Matteoni, partendo da un esempio a lui caro, la ristrutturazione della Colonia Comasca di Rimini. Un edificio acquistato dalle famiglie riminesi Gemmani e Tadei e dato in uso ai licei e alla scuola media della Karis Foundation. Uno spazio di circa 5000 mq, un’aula magna, una biblioteca, 26 aule, quattro laboratori, un bar ed una mensa. Un progetto da cui abbiamo imparato molto e che ha in qualche modo anticipato la nuova concezione di scuola.

 

di Arch. Stefano Matteoni

 

Immagini ©Federico Galli fotografiadicantiere.it

 

La scuola è sempre di più un luogo in cui si integrano relazioni, spazi, componenti architettoniche, informazioni, tecnologie, … Uno spazio educativo che non può essere neutro, ma che ha un ruolo determinante. Cosa significa per lei progettare una scuola? Quali dovrebbero essere le caratteristiche di una scuola a misura d'ambiente e di studente?

A mio parare, progettare una scuola significa mettere in luce le relazioni che permettono ad una figura discente di essere in contatto con una figura docente. Lo ritengo uno dei percorsi più interessanti del progettare scuole, perché si ha a che fare non solo col dare forma agli spazi, ma con il creare spazi che permettano rapporti. Rapporti di particolare tipo, in cui c’è un adulto che ha a che fare con delle persone che domandano le ragioni di quello che sono, le ragioni del loro significato. E questo aspetto fondamentale deve essere preso in considerazione nella definizione dello spazio.

Quest’ultimo deve consentire che tale rapporto si possa svolgere senza ostacoli e con tranquillità: è importante, dunque, prevedere spazi di relazione. Di fatto, il Decreto Ministeriale del 1975, sulla base del quale realizziamo tuttora scuole, già conteneva al suo interno delle indicazioni sul rapporto tra alunni e docenti. È chiaro che ciò deve assumere un’anima, un modo di fruire, un modo di muoversi e comportarsi nei confronti degli spazi. Quindi, progettare una scuola materna, una scuola elementare, scuole medie o superiori significa tener conto di queste interrelazioni, nonché cercare di fare sì che la struttura le ostacoli il meno possibile.

 

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Come si fa a “far dialogare” didattica e architettura in un progetto?

Ciò è possibile dando una forma agli spazi che permetta il rapporto tra docente e discente. Questo rapporto è intrinsecamente ‘umano’, ricorda la relazione madre/figlio e padre/figlio. Anche se ha delle caratteristiche assolutamente diverse, perché si incomincia ad inserire il ruolo dell’autorità, in maniera diversa rispetto a quella in ambito familiare. Un tipo di rapporto che sicuramente deve conformare lo spazio. Poi, ci sono due temi importanti, due limiti che bisogna tenere presenti nella progettazione di una scuola.

Il primo è emerso in seguito ad una chiacchierata con un caro amico, Vittorio Tadei, amico di alcune delle scuole che ho progettato e che rimase sorpreso dal livello di interazione normativa per realizzare questo tipo di attività. Lui mi disse: “Guarda Stefano, io ho visto in Africa delle scuole con 50 bambini ed un maestro, che svolgevano le lezioni sotto ad un grande albero. Io credo che quel rapporto tra il maestro e il bambino sia la cosa più importante, più di tutte le norme che regolano i tuoi progetti”.

Quindi è un “limite”, dentro cui un progettista sa che deve svolgere il suo lavoro. L’altro “limite” ha a che fare con la tecnologia. Mi riferisco a tutte le nuove tecnologie e a tutti i nuovi apparati che vanno ad inserirsi nel rapporto tra docente e studente, a tutti i livelli. Quindi sia a livello della scuola materna, che a livello della scuola superiore e ancora di più sicuramente a livello di edificio universitario. Ecco, un progettista si muove all’interno di questi due confini, dal Baobab, sotto cui un maestro esercita ugualmente la sua autorità, a quello di un maestro di oggi, che deve utilizzare strumenti multimediali quali le L.I.M., i tablet, internet, ...

Il mestiere dell’architetto deve permettere, dunque, di non interporre ostacoli tra la figura del docente e i ragazzi, per far sì che possano apprendere e crescere umanamente.

 

 

Partiamo da un progetto che ha più di 10 anni, la ristrutturazione della Colonia Comasca di Rimini. Come siete riusciti in questo progetto a superare gli ostacoli – come ha appena affermato - tra didattica e architettura?

In questo progetto è emersa fin da subito una sfida, quella di superare un altro limite architettonico, cioè di riuscire a far nascere una scuola in un edificio che era stato pensato con funzioni completamente diverse. Poco fa ho accennato all’albero e alla nuova tecnologia, qui avevamo un altro elemento. Come creare una scuola dentro ad un edificio che era nato per svolgere funzioni di colonia marina ai primi del secolo scorso, in un’epoca in cui nessuno pensava di realizzarvi una scuola?

Quindi avevamo a disposizione grandi spazi, stanzoni comunicanti e una struttura molto bella… Tuttavia, ci siamo accorti, fin da subito, che con pochi ritocchi potevamo trasformare questa bella struttura in una bella scuola. Pochi ritocchi ha voluto dire che le camere sono diventate aule, la mensa è diventata l’aula magna, i corridoi sono diventati spazi di relazione sufficientemente grandi per garantire processi, relazioni, rapporti e incontri propri di una scuola. Insomma, il progetto ha cercato di fare entrare tutta quella vita scolastica che inizia la mattina alle 8 e termina alle 2 del pomeriggio, che comprende non solo la parte didattica e cattedratica, ma anche il rapporto tra gli studenti, la possibilità di incrociarsi tra di loro, o coi professori, di andare alle macchinette, al bar,… di considerare, dunque, più spazi di incontro, … Di sicuro possiamo affermare che questi spazi hanno trovato una loro collocazione dentro a questo ambiente.

È stata un’esperienza molto bella, perché il rapporto con il corpo docente e con la direzione della scuola è stato l’elemento che ha suggerito ed accompagnato di volta in volta la redazione del progetto.  Quindi, tutto sommato è stato un gioco di incastri costituito dai due termini, il baobab e la tecnologia. Ha voluto dire anche essere docili a quello che la forma di questo edificio imponeva. Perché avevamo idea di fare cose molto in grande e la struttura non ce l’ha permesso. Ma questo ha voluto dire un lavoro di adeguamento delle nostre idee alla realtà, la realtà che diventava maieutica nei confronti del progettista.

 

 

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Si può affermare che questo lavoro abbia in qualche modo anticipato la nuova concezione di scuola?

Se per nuova concezione di scuola si intende un’attenzione nuova verso lo spazio di apprendimento, come luogo di espressione del rapporto tra il docente e il discente, credo proprio che questo progetto abbia espresso pienamente il concetto. Infatti, come dicevo poco fa, il nostro progetto si è sviluppato in un dialogo continuo con il corpo docente.

 

 

Com’è nato questo progetto, quali gli obiettivi e il percorso fatto?

Il progetto è nato da un’intuizione di don Giancarlo Ugolini che ha corteggiato un paio di imprenditori riminesi. Don Giancarlo era innamorato dell’immobile ancora prima di pensare di fare una scuola. Per lui i ragazzi per crescere avevano bisogno di assaporare la bellezza, di essere continuamente a contatto con la bellezza. Era molto affascinato da una struttura come quella della Comasca, divisa dal mare solo da una strada e da cui tutte le aule hanno la possibilità di contemplare il mare. Quindi, ha convinto due imprenditori, due amici che hanno lasciato un segno indelebile nella mia vita: Giuseppe Gemmani e Vittorio Tadei. Due grandi uomini che, assieme a don Giancarlo, sono stati una presenza importante nel mio percorso personale e lavorativo.

I passaggi sono stati questi: dopo aver fatto tutte le verifiche sulla fattibilità del progetto, gli imprenditori hanno acquistato l’immobile. Successivamente sono iniziati gli incontri, le conferenze, i rapporti con tutte le persone che erano implicate con la Karis, in modo da individuare meglio gli obiettivi, compatibilmente con i limiti che la struttura poneva. Non è stato un percorso particolarmente lungo, ci sono voluti circa 3 anni per terminarlo. Gli obiettivi sono stati quelli di permettere a questi ragazzi di incontrare degli adulti che si chiamano docenti e che quindi avevano qualcosa da insegnare. Il percorso del crescere attraverso la didattica. Questo era l’obiettivo che c’eravamo dati e che credo che la Karis stia perseguendo nei propri compiti istituzionali: far crescere delle persone attraverso la didattica.

 

 

 

Cosa vi ha guidato nella progettazione di questa scuola?

Oltre all’aspetto normativo - tutta la parte della pubblica amministrazione in tutte le sue declinazioni - che è necessario tenere ben presente nella progettazione, in questo lavoro ci hanno guidato incontri fatti, a partire da docenti, ma anche dalla rete di amici che a livello nazionale si occupano di scuole e che sono interessati ad avere uno sguardo sui ragazzi che non sia semplicemente finalizzato alla professione del docente, bensì ad un percorso di crescita e di educazione dei ragazzi. Poi ci hanno accompagnato tanti amici: dai docenti ai bidelli, ai genitori… ognuno aveva il suo suggerimento da dare. E questo ha voluto dire fare un progetto e poi metterlo in discussione, tenendo conto di tutto. Per usare un’immagine, è stato come tenere aperto un sacco e metter dentro tutto e poi riguardarlo e prendere di nuovo delle decisioni, cercando di trattenere il valore di quei suggerimenti.

Questo è interessante anche pensando all’origine della realtà scolastica della Karis Foundation, nata grazie al coinvolgimento e alla passione educativa di un gruppo di genitori. Anche il rapporto con l’impresa è stato molto positivo.

Il proprietario dell’impresa era coinvolto come me nel buon esito dell’operazione e con lui in particolare era ben chiaro il senso di uno scopo comune che ci portava non solo a risparmiare, ma anche a cercare di utilizzare materiali di elevata qualità.

 

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Cosa può dire di avere imparato da questo tipo di lavoro, come ha inciso sul suo modo di progettare?

Questo progetto mi ha insegnato che per raggiungere un risultato ottimale nella progettazione di una scuola bisogna avere a che fare con chi fa quel mestiere e riuscire ad interrogarlo fino in fondo sulle esigenze, altrimenti il progetto lo si sbaglia. Non basta attenersi esclusivamente alle norme da applicare, anche se hanno sicuramente una loro rilevanza, se pensiamo alla sicurezza, all’antincendio, alle normative di medicina del lavoro, oppure a quelle che regolano la grandezza di aule, il numero di bagni in una scuola…

Sono convinto, infatti, che al di là della somma dei componenti con cui si fa una scuola, bisogna avere davanti chi quella scuola la andrà a fare, chi quella scuola l’andrà a gestire: gli insegnanti, i presidi, insomma, chi ha il sentimento delle cose che devono accadere. La relazione con chi quelle scuole le deve fare è stata dunque l’esperienza più interessante.

 

Guarda il video del progetto

 

 

 

 

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